Lunedì scorso, finita la lezione, con Camilla e Maddalena stavo guardando il libro che Maddalena aveva trovato negli scaffali dietro di noi. Fantozzi. Di Paolo Villaggio. Mentre parlavamo se fosse ben scritto o meno e del fatto che era uscito prima il libro del film, Paolo Nori si avvicina e ci racconta che anni fa degli scrittori russi erano venuti a Roma per parlare dei migliori autori contemporanei tradotti in russo. E dice che a fare gli onori di casa c’era Moravia e che quando i giornalisti hanno chiesto quale fosse l’autore italiano preferito dai russi, Evtushenko, il poeta, avrebbe detto: “Vigliacco, a noi piace molto Paolo Vigliacco” e Villaggio era in sala, e si era accorto che anche se avevan sbagliato il nome si riferivano a lui e che ad ogni passo di Villaggio per avvicinarsi, Moravia, che lo aveva visto dal palco, fremeva e lo fulminava con lo sguardo, come a dire Provaci e ti sbrano. Mentre ridevamo di questa scena ho cominciato a chiedermi quanta autobiografia o esperienza reale ci poteva essere nel libro: Quanto Villaggio c’era in Fantozzi? E quanta routine, quanta noia? E mi son ricordato di Paolo, di quanto doveva esser stato felice quando aveva scoperto che la propria esistenza quotidiana, minuto per minuto, poteva diventare materia di racconto. “Tutti quei pomeriggi inutili passati sul divano…” aveva detto, come per riassumere il punto preciso e specifico dello spreco.
Allora ho cominciato a pensare a quali frasi m’avessero costretto a un cambio di rotta, a una deviazione improvvisa. E ho rispolverato un po’ di quelle frasi leggendarie che ognuno si porta dietro dalle proprie disavventure sentimentali. Le frasi degli amici, delle amiche, delle amanti. E finalmente un episodio preciso e nitido è spuntato.
Settembre 2007, un caldo incredibile, giù in tavernetta a studiare, Latino. Il mio ultimo esame. Un pomeriggio così caldo e afoso da sembrare unto. Studiare la declinazione degli articoli indeterminativi a petto nudo è una di quelle cose che uno anche se campasse diecimila anni non s’immaginerebbe mai.
Una mia amica mi chiama al telefono, vuole che venga con loro a vedere i Buskers (gli artisti di strada) a Ferrara. Loro chi? Lei, il suo moroso e Ana, la sua amica brasiliana in scambio universitario, una piccola dea marroncina con una voglia a chicco di caffè sulla guancia sinistra. Quell’anno era pure venuto Gilberto Gil in piazza maggiore a sancire con la musica e il ballo non so bene quale accordo tra il comune di Bologna e il Brasile. All’epoca era pure ministro. Ministro della Cultura. Sessant’anni e ballava come uno scalmanato, il ministro. Ma io ero un po’ distratto, avevo davanti a me Ana che mostrava con tutto il suo corpo, ma specialmente con le anche e il bacino, la sua gioia intima per un concerto di musica nostrana. Ana, Ana che viene dallo stesso paese dei Sepultura e che quando parliamo di musica la sua lingua scivola dietro il mio collo e su verso la cervicale.
“Da noi i giovani si dividono in generi musicali. Anche da voi? Come si dice Emo?”
“Como? Ah, Emu.”
“E indie? Sta per indipendente”
“Ingie, musica ingie”.
Un altro incontro e mi avrebbe strappato il cuore.
“Dai, lo sai che ha chiesto esplicitamente di te? Ogni volta è un Dov’è Luca? E cosa fa Luca? Ma viene Siru?”
E in quel momento, appeso all’asta della doccia nel piano seminterrato, mentre fuori tutto è immobile nell’afa e pure le zanzare rallentano nell’atterraggio sulla pelle, guardo fuori verso la finestrella con le sbarre e un pensiero stupido e superstizioso scatta. Sacrificare questa bellissima serata, questa primizia, questa eventuale storia d’amore sull’altare del Dio Latino. Prendo una delle cose più belle che mi stanno capitando in questo periodo e la rendo a te, divinità antica e inutile, e tanto più collerica quanto inutile. Un sacrificio sentimentale.
L’esame è andato bene anche se ci son giorni che faccio fatica a perdonarmi.
Ma poi ho continuato a rimuginare su episodi del genere, su come piccole frasi sentite o lette ci affascinano e ci lasciano avvinghiati a queste nuove stolide convinzioni, quando fino all’esatto momento prima eravam convinti del contrario. Ed è arrivata la cascata: devo a De Quincey e Dostoevskij la scelta di non voler fare ma solo godere della musica. Devo a un semisconosciuto saggista la mia particolare ossessione per l’oblio e la dimenticanza come antidoto alla gabbia sempre attiva e imbrigliante della memoria. Devo a William Burroghs la convinzione irrazionale che chi conosce le lingue straniere non possiede fino in fondo la propria, teoria condivisa in altri termini dal mio prof di economia aziendale Mazzeranghi, ma lui ne faceva più un discorso sul rapporto tra qualità e quantità. Devo al mio primo amore l’ironica maledizione secondo cui essere esperti e studiosi di letteratura ti nega la possibilità di essere scrittore…potrei andare avanti per ore ma mentre butto in un mucchio queste catene e questi pesi che ognuno di noi col tempo impara a far saltare e a liberarsene come Houdini, prima o poi, è già passata una settimana ed è arrivato il lunedì pomeriggio e sto guardando la TV, e c’è Costanzo sulla Rai, devo ancora scegliere cosa scrivere e di fronte a Costanzo c’è Paolo Villaggio che comincia e racconta degli scrittori russi, di Moravia, di lui tra la folla e di Evtushenko che legge il foglietto e dice “Vigliacco” e che lo paragonano a Cechov e a Gogol, che dice che Fantozzi piaceva perché ricordava i burocrati russi. E allora ho pensato che questo autobiografismo, anche se pseudo, mi ricorda un po’ l’autocannibalismo, che non so bene cos’è, ma che centra con l’amore.
Altro compito, a dire il vero un po' lunghino, solitamente dovevamo stare nel foglio A4, per la Scuola di Scrittura Emiliana con Maestro Unico Paolo Nori. Io, fossi in voi, un pensierino sul frequentarla lo farei...
Certo che tu la promuovi al meglio: è sempre un piacere leggerti!
RispondiEliminaGrazie Morena, un abbraccio forte
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