mercoledì 28 novembre 2012

Sinistrismi 14: Il segno della croce correndo

Qualche giorno fa mi son chiesto quanti automatismi, quanti gesti incondizionati, che in realtà sono condizionati dall'abitudine, dal non accorgersi, dal non esserci sempre, dal pensare sempre ad altro e procedere in automatico, fanno parte di noi e ho rivisto nella testa una collina, il dorso di una verde collina, verde scura.
Non troppo inclinata, non una di quelle da Pavese o Fenoglio a San Benedetto Balbo.
Una collina piccola, gentile, rotonda.
Su quella collina, avevo otto o nove anni, correvo a perdifiato.
Ero vestito di blu, blu scuro, quasi nero, con braghette corte.
Correvo e urlavo.
Giocavo.

Non ero solo. Era un gioco tutti contro tutti.
Avevo un pezzo di stoffa arrotolato, grande come un tovagliolo, rosso con i bordi bianchi, a farmi da coda mentre correvo. Il gioco era prendere i tovaglioli degli altri senza che gli altri prendessero il tuo.
Con gli anni poi, dopo, sono diventato piuttosto bravo.
Ma su quella collina non ricordo bene come era andata a finire.
Ricordo solo che un prete, il nostro prete, gentilmente, mentre correvo a rotta di collo, mi aveva fermato.
E mi aveva chiesto di fare il segno della croce. 
Io, ansante, sudato, con gesto fulmineo da Zorro, per levarmelo di torno, eseguo.
Sbagliato, dice lui.
Rifaccio, più lentamente, un po' stranito.
Sbagliato, ripete lui. E alza i bordi delle labbra.
Rifaccio di nuovo, sempre più perplesso. Dopotutto stavo giocando. Cosa voleva da me adesso?
La faccia del don è serena, rilassata, ma irremovibile.
Vedi, fa lui, Non bisogna farlo con quella mano. Sbagli dal principio.
Ma non è la stessa cosa?
No che non lo è? Il segno della croce lo si fa con questa mano, non con la sinistra.
Eravamo alla fine dei beati anni '80, il mondo era ancora per pochissimo diviso in due blocchi, e un prete, decano della cattedrale di una industriosa cittadina di provincia, soprannominata La città degli scout nel cuore dell'Emilia Rossa, che ancora per qualche mese avrebbe goduto i fasti e il lusso della maglieria più rinomata d'Italia sfruttando il lavoro del blocco sovietico pagato dai consumatori in valuta italiana, si ostinava a farmi fare un corretto segno della croce.

Sbuffando, mentre il sudore iniziava a raffreddarmi il collo e la schiena, eseguo, stavolta correttamente.
Soddisfatto, il don sorride.
Sollevato, impaziente, con sguardo supplice, mi preparo a ripartire di corsa.
Vado don, dico senza nemmeno guardarlo in faccia, più che una richiesta di permesso era una constatazione, un arrivederci.
E lui: Va bene caro, cerca però di non nominare il nome di Dio invano. Anche se corri e ti diverti, fai attenzione a cosa dici.
I muscoli erano già in moto, la prima raccomandazione m'è scivolata di dosso mentre ero a tre metri dal don, la seconda m'ha inchiodato di spalle come nei western, le spalle che si allargano, i gomiti che si avvicinano.

Quindi quando non sono cosciente bestemmio?
Perché poi?
Se nemmeno sono consapevole di farlo, perché dovrei insultare qualcuno?
Quali motivi avrei, escluso il grido di dolore dell'Essere che voleva restare Nulla (un ronzio incessante, vero? se ti sintonizzi sulla giusta frequenza, puoi anche diventarci matto)?
Che gusto ci sarebbe?
Oppure sono un portale dimensionale di anime perdute?
Ma il male può essere incosciente?
Secondo Kafka no, è vero piuttosto il contrario ma io Kafka allora non lo conoscevo quindi ciccia, tocca continuare a correre.

Una parte di me è rimasta lì per terra, stesa, mentre tutto il resto continuava a correre.

Non so se era anche la mia anima, sicuro era la mia serenità di uno e indiviso ma ero intorno a gente che crede nella possibilità di uno che si è reso trino quindi più di tanto non ci ho dato peso, allora.
Però, ripensandoci, da quella corsa ho cominciato a stare attento a me stesso, più come reporter che come sbirro. Come sbirro sembro uno di quei poliziotti irlandesi di NYC, tutto ciambelle e passeggiate per le zone bene della capitale, che quando vedo un giovinastro scassinare un'auto dico bonario Fai a modo... Il reporter invece corre veloce, quasi come le storie nella mia testa; quasi però.

E da allora ogni volta che corro, in un lato della testa, canticchio canzoni.

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Karl Kraus